
“[…] E vi è una legge “sacra”; una società “sacra”; una morale “sacra”; un’idea “sacra”! Ma noi – i padroni e gli amanti della forza empia e della bellezza volitiva, dell’Idea violentatrice – noi, gli iconoclasti di tutto ciò che è consacrato – ridiamo satanicamente, d’un bel riso largo e beffardo. Ridiamo!… E ridendo teniamo l’arco della nostra pagana volontà di gioire sempre teso verso la piena integrità della vita. E le nostre verità le scriviamo col riso. E le nostre passioni le scriviamo col sangue. E ridiamo!… Ridiamo il bel riso sano e rosso dell’odio. Ridiamo il bel riso azzurro e fresco dell’amore. Ridiamo!…”
Renzo Novatore, “Verso il nulla creatore”
“Rimandato a data da destinarsi” è il motto di un mondo che continua ad aspettare attonito un orgasmo che mai arriva o, se si, allora il coito è perennemente interrotto. Non esiste creazione se non replica di quanto già avviene in ogni istante dell’esistente, così definito per com’è. Ma noi continuiamo ad imporci il conosciuto e mai osiamo spingere l’occhio, il cuore, il fegato un po più in là. L’ignoto atterrisce ed è per questa stessa ragione che la fertile fanghiglia del fiume resta dentro al letto e non si alza mai da li per fuoriuscirne.
Le piazze qui si prenotano, alcuni ci riescono pure a decidere gli ingredienti, come fossero pizze. Le stesse pizze che elargiscono guanti impellati sui volti della vita da loro detta degrado. E adesso si preparano al peggio, indossano i loro guanti nocca-induriti, scudi di plastica resistente, torce tattiche e via di cecità imposta a suon di manganellate, testosterone e provvedimenti. Complici, rane e rospi gracchiano e lo fanno ancora ed ancora. Chi seduto alla destra chi alla sinistra, ma comunque al servizio del padre depravato che sbava sulla vita, inferendole colpi di morte insensata.
La cispa del sonno offusca la vista sino al crepuscolare e, poi, l’alba non permette nuove messe a fuoco, se non invece ancora patine su patine, fiumi di acqua congelata. Ma il sonno è importante, l’incubo diventa tale quando si incomincia ad affogare nello stesso pozzo in cui si aveva il terrore di precipitare. La paura dilaga e allaga, togliendo sempre più ossigeno e favorendo l’avanzare di un tenebroso buio statico e veramente poco elettrico. Freddo gelido. Traumatici scontri con l’opinione balbettata nei salottini del ‘bel pensiero’ hanno imposto il blocco dell’emozione. Sollecitazione di qualcosa di nascosto che, paradossalmente, lo nasconde ancor di più.
Fuga, fuga, fuga. Ma da chi? Da cosa? Ma verso chi? Verso cosa? In realtà vedo le fauci spalancarsi poco più in là, l’ennesimo carnivoro in un mondo di zombie.
Così che in questo ritmo del sempre uguale qualunque stonatura divenne un rischio e, tacitamente, si tornò a scorrere nei soliti argini. Quello che fece squarcio è stato, poi, in parte, incentivo di compromesso, di incontro a ribasso nel pastone del movimento angosciante che le ventiquattro quotidiane ci affliggono di già. Ma è da comprendersi; la performance impone il concentrarsi sulla messa e poi su quella che seguirà, scansando sapientemente l’estasi della morte con “le stelle dorate negli occhi”. Il sangue dal sottosuolo continua ad urlare in un un’unico boato di disprezzo e da questa parte vi è il peggiore dei sordi, quello che si rifiuta di sentire e pretende comunque di ascoltare.
La prossemica del parroco che recita la messa e che cambia l’omelia confacendosi al compiacere di orecchie mono-melodiche. Il rituale è costantemente ripetuto, il buon vivere rimandato al regno dei cieli!
Ossa carpali mimano opposizione; “andate in pace, la messa è finita!” Terminata, dunque, fedeli tornano a casa silenziosi, al loro quotidiano funzionamento. Aspettando, più o meno operosi, il riaprirsi del prossimo sipario domenicale, l’ouverture della tristezza nel mezzo del settimo giorno. Poi, il tabù riposto laddove era stato tirato fuori; tabernacolo pieno di ostie, un numero finito di possibilità e lo stesso cammino già battuto e tracciato molteplici volte. Estenuante progettazione di un qualcosa che di per sé non avviene, concretizzandosi solo nel costante ripetersi di liturgie già sentite, già viste. Le tossine contro cui fu fatta catarsi, persistenti nell’esistente e che hanno fatto presto a riprendere la loro egemonia per un momento contesagli, ed insieme le routine, hanno riportato alla disciplina, al definito. Lo spazio vacante dovuto allo scuotersi delle cose si è saturato velocemente di ‘status quo’ e il ticchettio tornato quello di prima, riprendendo una routine che, allora, solo illusoriamente si era interrotta. L’immaginazione di un percorso così è ancora centrale nel fare possibile l’illusione di novità e, spesso, non fa altro che attribuire a mani diverse gli stessi strumenti corrosi nel ripetuto esercizio di opposizione a ribasso. Infine, la ritualità cessa di esservi, la solitudine riprende il sopravvento.
Proprio nella vuota liturgia a ripetere, nell’esservi solo in compresenza, nell’esservi esclusivamente nell’accorato ‘amen’ che non vi è più l’essere. Strappato dal ‘se’ ed introdotto ad una convinta quanto ciecamente certa omelia rifiuta di vivere. Rifiutandosi di viversi nel sé, dunque, mai la percezione della galera indurrà a nuove fughe ed ecco la resa allo Stato delle cose. Nella pretesa di una posa tanto adulta tanto maschile si omette in ogni respiro la costante essenza di infanti che alberga nel ‘è tutto possibile’. Evitando ciò si evita la vita ed evitando la vita non è la morte che si incontra, bensì le sopravvivenze. Una serie infinita di derma all’occasione, che non fanno ladri, ma adepti, degni gregari di un mondo rimandato all’avvenire. Ed è proprio qui che si fa il patto con la storia, che diventa singolare dal momento che ci è utile al ricordo che è stato, l’evocazione dell’oggetto che si è trasformato in simbolo assolve dall’assenza dell’ora. Una delega retro-attiva alla carcassa del passato che ferente spasmi impesta tutto di decomposizione. Una tomba, una lapide, un cadavere. Il corpo morto è divenuto adulazione dal momento che, prosciugatone il sangue, se ne sono abbeverati i san Pietro di tutti i giorni. Le nuove e tanto ataviche quanto perenni pietre angolari del sempre uguale. Inventata l’anima, coartata in una qualche omelia, sono apparsi i pastori, ingannatori seriali, tanto dediti alla circuizione del sé, ormai relegato a quel vago ricordo sacro; tanto a quella del macro-cosmo sociale che ne permette l’esistere, di cui si nutrono.
Distruggere. Ci atterrisce questa parola perché, servi del capitale, abbiamo affidato il senso, dotandolo di unicità universale, al “regno delle definizioni”. E di ‘distruggere’ se ne fece senso di sofferenza, di strazio. Dotati di senso unico, instradati al solo verso possibile, siamo divenuti adulatori degli asfaltatori. Hanno accomodato il servilismo ed estrattone ogni potenziale possibile messo al servizio dell’avvento di un nuovo conosciuto, di un nuovo irreversibile percepito ed, a giogo serrato, anche auspicato. Ma il fuoco… il fuoco arde e annerisce ogni cosa e se l’unico che vedete voi è quello dei fucili e delle bombe è solo perché state dalle parte dei torturatori, degli sventolati come bandiere, di coloro che scaldano il petto solo all’udire del loro inno di morte.
Ed ora che hanno fatto “strade comode dove erano sentieri scoscesi”; ora che hanno intriso ancora di più la terra del sangue dei loro squallidi sacrifici; ora che continuano ad elargire strette di mano sulla carcassa di ciò he hanno deciso essere “progresso”; ora che hanno ulteriormente pianificato la nostra distruzione; ora che ci impongono il buio dello spettacolo terminato; ora che ci tolgono il respiro con quella manaccia stretta sulle vie respiratorie; ora che ci avviliscono ancora di più; ora che hanno ancor di più intristito le città; appestato le campagne; plastificato i mari; ora che ci hanno imposto i loro loschi paesaggi, prendiamo un profondo respiro, sciogliamo la garrota. Torniamo ad urlare verso il mare, sconfiggiamo la paura della notte, che ci avvolga nel co-spirare ivi possibile, con sordità alle cieche parole dell’ennesimo rimando, per non sentirci più dire “tutto un giorno cambierà”, scagliamoci adesso contro il boia aguzzino, facciamolo adesso. Perché la sua mano sulle nostre gole si fa sempre più stretta ed in ogni momento in cui i nostri corpi si scuotono nell’estasi che solo l’ondulare del capo procura, come una danza magica, riconosciamo quella morsa allentarsi sempre più.
Il messinese vede affacciarsi, prepotentemente, una serie di progetti e cantieri preliminari all’aggressione delle nuove frontiere di capitale. L’interesse per il territorio è totale, mentre si svolge il teatro della propaganda, tra banchetti, celebrazioni e marketing istituzionale, si proiettano dalle colline sino alle coste tutta una serie di interventi infrastrutturali (nel senso più ampio) che hanno l’obiettivo di modificare l’organizzazione del territorio, ancora una volta, in maniera tendenzialmente irreversibile.
Interventi relativi a nuove vene di collegamento, strade che vengono richieste a gran voce dalle diverse municipalità; il posizionamento di kilometri e kilometri di fibra, utile alla nuova infrastruttura energetica e digitale del capitale “verde”; zone abitate, in quelle che vengono chiamate baracche, rase al suolo per fare spazio a nuovo asfalto, operazioni di risanamento che prevedono l’acquisto e la costruzione di nuovi alloggi, spingendo l’abitato messinese sempre più verso le aree collinari, procedendo alla spopolazione delle coste e, progressivamente, del “centro storico”; gli interventi di ricostituzione dell’amministrazione pubblica, oltre che degli uffici propriamente amministrativi, anche delle strutture di polizia e controllo, con l’implementazione delle possibilità di intervento della polizia urbana attraverso nuove dotazioni in termini di strumentazione tanto operativa quanto legislativa ( si veda l’approvazione in Senato del ddl sicurezza); il progetto ponte e la sua innervata rete di cantieri previsti; l’interoperabilità di piattaforme di controllo e gestione del territorio. Tutti interventi volti al rifacimento e preparazione del territorio messinese e dello Stretto (tra altri) alle nuove forme di estrazione, in continua innovazione ed imposizione sulle nostre vite.
Ognuno di questi aspetti vengono costantemente testati su ristrette comunità umane e dopo estesi, con diversi pretesti, verso la totalità totalizzante del capitale. Così i confini che dividevano carcerate e carcerieri sono andati via via opacizzandosi in favore di sempre più nette divisioni con ciò che è di fuori. Ma questo, insieme a tutta l’innovazione coatta che ci spetta in elemosina da questi elargitori di torti umani, è sempre possibile attraverso la costrizione di quanto è definibile vita all’interno di questo squallidissimo contenitore di loschissime intenzioni. Risalendo a ritroso il filo dei loro esperimenti mortali si giunge sempre a qualcosa di peggio; tecnologie di riconoscimento biometrico e strategie di repressione testate negli stadi, nei quartieri, sulle frontiere, a Gaza…per esempio. Così la catena della tristezza si stringe sempre più al collo, rendendo pesante un respiro già intriso di polveri sottili ma pesantissime.
E questo grattare il fondo non fa altro che rispecchiare nella pozza di fango ancora una volta la stessa immagine: SIAMO IN GUERRA! Danzano le persone sulla terra, danzano le rabbie ascoltando l’urlo del sangue che l’ha intrisa. Morti, morte, morti, morte, morti. Senza motivo, soppresse dalle ali di una morte con occhi vuoti, trasparenti, una morte famelica, devastante, invasiva. Ma danzano le menti in conflitto, danzano e sguazzano i loro piedi in quel fango; quello scempio cammina con chi danza, gli si acquatta sul collo dei piedi e gira inesorabilmente il mondo. Un moto che prescinde le nazioni, principali colpevoli di tutto quel sangue insensato, supera valichi, cordoni di polizia e leggi repressive per scagliarsi, poi, in petto alla gente cui respiro vuole essere reso ogni giorno sempre meno possibile. L’affanno all’immagine, lo sfondo è crudele e la scena in primo campo è uno stupro, una perenne penetrazione, prestazione del male, performance della squallida realtà di eserciti e frontiere.
Sempre più numerosi i progetti di rifacimento degli spazi già esistenti nei quartieri al margine del centro cittadino (in senso più ampio). Per favorire lo spostamento della popolazione verso le aree pre-collinari della città, caratterizzate storicamente dall’insistervi di rioni e zone popolari che hanno visto nel tempo lo svilupparsi di forme di gestione, per così dire, interna, tanto nelle sue versioni più criminalizzate tanto nelle vicende più pratiche del quotidiano svolgimento di vita ove lo Stato si presenta con ordinanze di sfratto e luci blu nella maggior parte dei casi (o sotto forma di stipendio elargito dall’opera di arruolamento degli affamati e delle affamate), bisogna che vengano riorganizzate con interventi infrastrutturali ed abitativi; il “risanamento” è uno degli aspetti di questa preparazione allo scollinamento di quello che sarà il residuale demografico a fronte di un territorio sempre meno vivibile sempre e solo per cause dolose. È infatti in corso da un paio d’anni l’abbattimento di migliaia di “baracche” per spostare le persone che li vi abitavano in nuovi quartieri, attraverso sia l’acquisto di abitazioni già esistenti sul territorio e disabitate, sia attraverso la costruzione di nuovi complessi abitativi come quelli previsti dal “PINQuA” (Programma Innovativo Nazionale per la Qualità dell’Abitare). Un decreto ministeriale che prevede “interventi finalizzati a ridurre il disagio abitativo aumentando il patrimonio di edilizia residenziale pubblica, a rigenerare il tessuto socioeconomico dei centri urbani, a migliorare l’accessibilità, la funzionalità e la sicurezza di spazi e luoghi degradati”, seguono individuando questi luoghi, per l’appunto, nelle zone periferiche. Un piano, che si aggiunge a tanti altri, per il rifacimento dell’abitabilità delle città in termini di sicurezza e controllo.
La costruzione di nuove strutture abitative nei quartieri o quella di nuove zone di abitato che, in questo caso, sacrificano sempre più la socialità e la possibilità di costituire comunità di vita in grado di fronteggiare il sempre più dilagante senso di solitudine e di abbandono, sono la punta di diamante della desertificazione delle coste e dell’appropriazione del centro cittadino per fini esclusivamente speculativo-turistici. Insieme al dislocamento dell’abitato cittadino vi è la stesura di nuove lingue d’asfalto, la costituzione di nuove vene ed arterie che possano accogliere la Messina che sarà; prima stuprata da miriadi di aree di cantiere e, dunque, da mezzi e logistica in continuo spostamento, poi spopolata e riempita di soli flussi di merce-capitale e persone-capitale. La vita pulsante uccisa con ingenti quantità di antibiotico “progresso”. Così la città riorganizza i suoi spazi per accogliere la nuova economia dell’innovazione infrastrutturale e del pacchetto viaggio venduto da varie agenzie o ‘MSC’ di turno. Proprio a questo mostro l’autorità portuale dello Stretto allarga le braccia, in cambio di un nuovo terminal crociere, moderno ed in grado di accogliere nuovi flussi turistici previsti ed in atto. In cambio di un rifacimento, ennesimo cantiere, affidato al colosso della navigazione la gestione del terminal turistico all’interno del porto di Messina. Capo fila dei trasportatori di merci, siano esse persone, armi o scarpette… Ricordiamo la complicità della ‘Mediterranean Shipping Company’ nella detenzione di migranti, al momento della dichiarata pandemia, attraverso ‘Grandi Navi Veloce’ (GNV) venivano allestite le “navi quarantena”, garantendo così al colosso di equilibrare i profitti persi attraverso i soldi del ministero. ( approfondimenti: “Chi tene ‘o mare, l’impero MSC e gli impatti su Napoli”– https://brughiere.noblogs.org/files/2025/06/chi-tene-o-mare.pdf)
Una città votata ad innovazione e sicurezza. Infatti laddove si insediano gli interessi del nuovo capitale la necessità di controllare e reprimere diventa predominante tanto quanto la necessità di comunicare senso di sicurezza. L’innovazione digitale ha permesso tanto il rifacimento della pubblica amministrazione con le varie riforme digitali, tanto il disseminarsi di sensori e telecamere su tutto il territorio. La città di Messina entra nella rete delle “smart cities”, scalando le classifiche di smartizzazione dei comuni italiani, a suon di foto-trappole, paline intelligenti, sensori di monitoraggio del traffico, telecamere e repressione del “degrado”. Sarà un caso che mentre si scalano le vette delle classifiche delle città così dette intelligenti si abbassa vertiginosamente la qualità della vita?! Più le strade si fanno ‘smart’ meno sono a misura di essere umano, li dove l’essere non-umano è già stato ridotto a soprammobile da compagnia.
Innervata la città di strumenti per il controllo si era nel frattempo predisposto l’apparato amministrativo-legislativo che lo rendesse possibile. La linea rossa di sangue dei decreti sicurezza e dei regolamenti urbani repressivi non ha certo incipit oggi. Così decreto su decreto, disegno di legge su disegno di legge, i diversi governi in carica hanno stretto sempre più le maglie del controllo, testimoniando la lungimiranza dei loro squallidi piani di controllo e sterilizzazione di vita vissuta. In ultimo, il ddl sicurezza. Approvato ormai anche in Senato, aveva visto in un primo momento diverse forme di applicazione sul piano territoriale come ad esempio le c.d. “zone rosse”, un termine giornalistico utilizzato per indicare delle aree (urbane ed extra-urbane) che, per differenti ragioni strategiche, sono considerate meritevoli di particolare attenzione poliziesca. Una zona rossa è così una zona non attraversabile, un fortino da difendere con il proprio esercito e i mezzi a sua disposizione. ‘DACUR’ (divieto d’accesso ad aree urbane), fogli di via, avvisi orali dei questori, sorveglianze speciali e prevenzione più in generale sono gli strumenti ed i ‘leit motiv’ che animano l’azione di guerra urbana portata avanti da forze dell’ordine ed armate su mandato del legislatore. Così anche a Messina sono state implementate delle forme personalizzate di “zone rosse”, con il preciso intento di immunizzare e sterilizzare delle aree della città da quelle forme di esistenza che vengono più comunemente definite “degrado”, una bruttura da cui liberarsi in nome del quieto vivere e, soprattutto, del quieto guadagnare.
La costante insubordinazione di persone singole e gruppi rende sempre più necessario un’infrastruttura detentiva in perenne sviluppo, sia sul piano strutturale che di strumenti tanto legislativi quanto di vera e propria tortura a disposizione di carcerieri. E non basta, ad essere costantemente oggetto di cambiamenti e modifiche sono le strutture e le persone al comando dei vari reparti di forze dell’ordine ed armate. Se da un lato lo strumento dei decreti sicurezza che si sono avvicendati negli anni hanno garantito una sempre maggiore capacità di azione per la repressione ed il controllo da parte di polizia e forze armate, dall’altro vi è la costante affinazione di strumenti detentivi e l’impostazione di un sistema carcerario che operi un controllo diretto su detenutx attraverso il lavoro, centralizzandone la struttura organizzativa; ed, ancora, un’impostazione di “ordine pubblico” che, lo vediamo con le così dette “zone rosse”, si modella sempre più sulla gestione delle criticità che si determinano in scenari di guerra urbana. Così le tecniche di detenzione e gestione della criticità sociale diventa per l’Italia fenomeno di vanto, tanto da divenire prodotto d’esportazione, con paesi interessati al modello italiano del 41-bis, per esempio. Incontri bi-laterali tra paesi europei con l’intento di armonizzare lo strumento detentivo-tortura, scambio costante di conoscenza e metodologie di repressione e controllo preventivo della popolazione, utilizzo di tecniche mutuate in contesti di guerra per quanto riguarda la gestione dell’ordine urbano. Da sempre metodi polizieschi e detentivi sono stati oggetto di scambio ossessivo tra paesi, divenendo nella storia delle nazioni strumento di esercizio di potere e di presenza extra-territoriale di personale addestrato a fare la guerra. L’Italia in questo è sempre stato punto di riferimento nella più vasta di rete di interscambio di ‘know how’ sulla detenzione e costrizione di corpi ed idee. Molteplici sono i progetti di interscambio che vedono il modello detentivo italiano presentato in pompose conferenze ed utilizzato come modello di riferimento per la costituzione di sistemi affini in altri paesi. L’Italia, oltre che armi e software, è un dominante esportatore di tecniche militari, poliziesche e certamente detentive. Per esempio la Francia che si impegnava a completare la prima struttura ispirata al modello di differenziazione della detenzione ed all’isolamento italiano entro il 2025, oppure in Cile dove l’ambasciata italiana di Santiago ha organizzato un incontro per presentare alla Corte costituzionale cilena il modello del 41bis. Il tutto si inserisce nella lotta alla criminalità organizzata ed alla sua prevenzione, motivo per cui l’Italia si trova spesso come paese coordinatore di progetti di interscambio simili. Come quello del programma europeo ‘EL PACTO 2.0” con il Sud America, dove per l’appunto a coordinare si trova la delegazione italiana, che mira all’impostazione di un sistema preventivo che aggrava la portata del reato di associazione terroristica permettendo la detenzione anche in assenza di reati specifici (https://elpaccto.eu/en/sobre-el-paccto/que-es-el-paccto/). Il carattere di materia da esportare determina repressione e carcerazione, ancora una volta, come prodotti che si inseriscono nell’ennesimo mercato in evoluzione, che vede l’affermarsi di nuovi ‘players’, che quindi determina forme concorrenziali caratterizzate della quantità di brutalità possibile, direttamente proporzionata con la quantità di guadagno possibile. L’invasione è a tutto campo ed è guerra dentro ogni territorio delle libidini, le canne dei loro fucili ci si vogliono conficcare in bocca, costringere alla paura cieca, al fuggi fuggi atterrito e pieno di solitudine. Un mondo che cuce su ogni corpo la possibilità oppressoria, la possibilità repressiva, è un mondo vergognoso! Un prodotto da consumo che, oltre essere in perenne innovazione, è costantemente e perfettamente cucito sulle diverse persone che sono investite dalla sua micidiale portata. Un prodotto che, gli Stati che ne hanno affinato le tecniche, esportano utilizzandolo come strumento di quello che è definito ‘soft power’, della cultura. Ogni cosa intrisa di un logica di potere diviene cosi rappresentazione vivida di tutto ciò che affligge l’esistere in virtù di guadagni “costi quel che costi”. Infrastrutture legislative e materiali, eserciti che svolgono funzioni di polizia, polizie sempre più spiccatamente militarizzate, apparato detentivo in galoppante sviluppo ed aggravamento, tutti pezzi di un puzzle agghiacciante, elementi co-agenti nella pedissequa devastazione del vivere. Così il ritmo del mondo si è sempre più assottigliato a quello di un performance sessuale tutta maschile, quello della performatività a spese sempre e comunque del godere. Una perenne penetrazione che pretende, dunque, l’esistenza di corpi altrettanto perennemente pronti a ricevere quest’azione penetrante. L’amplesso privo di orgasmo si caratterizza come perno di un mondo, quello del consumo, che incentra sulla non realizzazione il suo iato vitale. Ed è così il perenne stupro dell’esistere ad opera di chi ci impone i suoi loschi paesaggi, i suoi mefitici progetti.
Passano i centurioni e dietro di loro solo il nulla, gli spazi bonificati e desertificati fanno largo ad intenzioni ancora non del tutto decifrabili e velate dall’incombere del più grande degli stravolgimenti, il ponte sullo Stretto. Tutto sembra predisposto per fare spazio a questo mostro, colossale gigante fatto di una miriade di organi-cantieri, per fare spazio al loro esercito d’invasione armato di betoniere e giustificazioni scientifiche. Così la riorganizzazione urbana non può che essere strettamente collegata al ri-conformarsi di un territorio che vede su di esso il progettare di lavori della portata di quelli dei vari interventi previsti dalla costruzione del ponte. Tutto riorganizzato sulla base di nuove necessità e soliti guadagni; presidi di polizia, leggi che uccidono il dissenso, nuova viabilità e confini sempre più stretti. Mentre progettano kilometri di asfalto e linee ferrate; mentre organizzano le loro trincee dalle quali farci fuori; mentre scavano l’ennesimo buco nero in cui seppellire i corpi da loro marginalizzati, messi al bando; mentre producono e trasportano l’ennesimo container di mitragliette o bombe; mentre continuano a sbatterci in petto la loro retorica dell’inesorabile, dell’irreversibile; mentre schierano i loro eserciti in mimetica, tuta da cantiere o muniti di camici; mentre condiscono i pasti delle persone recluse con tranquillanti, esattamente come “qui fuori”; mentre stridono la loro tristissima nenia di non-vita; mentre gli impostori ci forniscono l’ennesima urna dove seppellire le nostre ceneri; mentre sparano a vista sui barconi di migranti che attraversano il Mediterraneo o li recludono in campi di prigionia; mentre inaugurano l’ennesimo luogo di detenzione e morte e ne progettano un altro ancora; mentre impalcano i loro ponti ed espandono basi militari; mentre perforano un’altra montagna avvelenandola con appresso tutto il circostante; nel mentre di tutto ciò, nel mentre di molto altro ancora, suonano il piffero ed organizzano il ballo dei loro topolini. Stendendo il velo pietoso della democrazia orchestrano tutto ciò e molto altro ancora.
Esiste dunque un potere ‘soft’?! Potere che si impone con bombe, fucili, manganelli, leggi liberticide, cemento, strade, infrastrutture e forme del pensare, del (non) vivere. Un cinismo sovrano, demo che esercita la sua crazia e così ‘potere’, di mano in mano, ha definito quali palmi, o meglio, quali condizioni per tali siano in forze affinché si possano armeggiare i certi strumenti mortiferi. Proprio nella democrazia hanno costruito galere, implementato regimi come quello del 41-bis, innalzato muri alle frontiere, compiuto 75 anni di genocidio in Palestina, sparato a Carlo Giuliani, protetto i raduni ad Acca Larentia e simili, 124 persone sono state suicidate solo tra il 2024 ed il 2025 nelle galere italiane, vengono implementate leggi come quelle dei decreti sicurezza, si osservano manifestazioni di piazza brutalmente attaccate da squadroni antisommossa, si finanzia con miliardi la strage di Gaza, si detiene la gente per la sola assenza di un documento. Ma quanto potrebbe andare avanti questo elenco?! Quanto a lungo potrà andare avanti?! Quanto si può ancora offrire resilienza ad un mondo che ci vuol vedere accettare qualunque grado di curvatura prona delle schiene?! Quante mani possiamo ancora lasciare che si prestino alla loro torbida azione di becchinaggio?!
“Il presente è pieno di nuclei di rifiuto e indisponibilità tra loto dissimili, potenzialmente in guerra, in mezzo a cui covano vie d’uscita e diserzione. Muoversi in questo mondo sotterraneo significa però rinunciare ad una certa logica di visibilità e raggiungibilità che è tipica della politica, con il suo armamento di propaganda e consenso. Significa inoltrarsi nel terreno in ombra della cooperazione e delle solidarietà nascoste che vanno oltre la rappresentazione e l’identità. Il marxismo ha voluto, fin dalla sua nascita, liberare il movimento operaio da questa sua promiscuità originaria con la sua ombra cospirativa: lo ha fatto dichiarando guerra a “sette” e società segrete, proclamando la necessità della politica di massa, rappresentativa, pubblica e alla luce del sole. Oggi riabbracciare questo spazio significa cercare delle intese fuori dalla griglia di riconoscimento che la rappresentanza politica ci fornisce, guardando alla materialità degli incontri contro un qualcosa che si disprezza, per un uso vitale che si vuole conservare o affermare insieme. Ciò può avvenire soltanto al di fuori della razionalità trasparente delle proposte e dei programmi”
Michele Garau, “Anatomia della rivolta”
OGNI RESPIRO E BATTITO DEL CUORE CON CHIUNQUE SIA SOGGETTX ALLA REPRESSIONE DI STATO E CAPITALE!!! LIBERX TUTTX, LIBERX SUBITO!!!
G. LIBERX!!!
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