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“CREIAMO INSIEME GLI SPAZI CHE SOGNIAMO”

“Quest’ultima goccia non fa traboccare il vaso di acqua ma, per l’ennesima volta, rende piena d’incertezze e lascia a sè stessa una cittadinanza sempre più delusa.

Non vi sono zone della città che non siano in qualche modo colpite dalla mancanza di erogazione idrica nelle abitazioni. Intere palazzine a secco da giorni, alcune superano la settimana. Segnalazioni arrivano da ogni angolo, da Punta Farosino a Larderia, ove si possono constatare variegate situazioni di disagio. Probabilmente la suddivisione in aree di gestione dell’emergenza voleva suggerire una localizzazione del problema, facendo trapelare il totale essere sotto controllo della mancanza d’acqua. Ma la realtà suggerisce un quadro molto più ampio e fosco. Il piano d’emergenza emesso dall’AMAM fa “acqua” da tutte le parti, triste metafora in questo momento. In fin dei conti sembra solo aver riempito le strade di autobotti che invadono la città, affannandosi, nel travasare qualche metro cubo di acqua nei vari serbatoi dei condomini in giro per l’area urbana di Messina. Ad essere messa in discussione non è qui la buona volontà di operatori ed operatrici che cercano di districarsi, anche loro come vittime, in questa nassa piena di disagio e sentimento di abbandono; piuttosto, la riflessione dovrebbe superare la mera ricerca delle inefficienze quotidiane nella c.d. gestione della crisi e non incagliarsi nei tecnicismi infrastrutturali di condutture, inclinazioni e vari livelli di pressione.

Se la frammentazione in aree della città afflitte dalla crisi idrica può dare un’idea di localizzazione del problema, seguendo le segnalazioni dei cittadini e delle cittadine ci rende presto conto che la mappa dell’emergenza attraversa, se non tutto, un’ingente parte dell’urbanizzato messinese. La gente ha potuto fare affidamento su qualche autobotte o sul proprio ingegno e possibilità organizzativa (in termini soprattutto economici). Ed in questo quadro di essiccamento colposo le beffe non sono affatto poche:

In primo luogo, la privatizzazione dell’infrastruttura idrica, ossia laddove non è possibile impossessarsi dell’acqua, si sono svenduti i rubinetti. Qui subentra ATI, ossia Assemblea Territoriale Idrica, ente pubblico cui compito é la gestione delle varie infrastrutture idriche territoriali, subentrata ad EAS (Ente Acquedotti Siciliani) commissariato da ormai parecchio tempo. Per quanto riguarda la conduttura del messinese, ATI sembrava intenzionata, in un primo momento, a determinare una gestione a carattere totalmente pubblico. Nel giro però di pochi mesi da questo tipo di delibere (nn. 10,16,28 del 22), cambia tutto, e dall’ente si decide di cercare invece un partner privato che co-gestirà l’infrastruttura idrica detenendone il 49% della proprietà. Nel frattempo, alcuni “commissari ad acta” della Regione Sicilia determinano il compimento dell’iter burocratico per dare vita alla Messinacque S.p.a., società cui destino, aiutato dalle continue proroghe di ATI sul bando di ricerca del partner privato per la gestione dell’apparato idrico messinese, sembra voler riservare quel 49 % menzionato sopra. L’ultima proroga portava la scadenza al 10 luglio 2024, data oltre la quale non sembrerebbe esserci stata alcun’altra proroga per il bando; si può presupporre che Messinacque S.p.a. si sia adesso presentata ad accaparrarsi la “conduttura promessa”. 

Le conseguenze di questo passaggio di questa grande fetta di proprietà dell’infrastruttura idrica avranno ripercussioni già immaginabili, prima fra tutte il levitare del costo dell’acqua stessa; beffa oltre il danno in tempi di crisi totale ed assenza di acqua corrente

Ci chiediamo quale ruolo abbiano Comune ed AMAM in questo furto bello e buono. Ci chiediamo se il ricorso al TARdei Comuni, rigettato recentemente, sia bastevole nel garantire a noi tutti e tutte un dignitoso accesso a questo bene primario.-

Già solo questo basterebbe a farci accapponare la pelle, ma le controversie non finiscono qui; prime fra tutte l’incombere della cantierizzazione della città tutta per far spazio al mostro ponte. Che con la stessa prepotenza di chi ce lo impone farà breccia nelle nostre esistenze, determinando uno scossone senza precedenti nelle nostre quotidianità. La domanda sorge spontanea: “ma forse sarà che l’acqua la vogliono portare con il ponte?!

Mentre Webuild, (la stessa azienda incaricata di costruire il ponte sullo Stretto) tiene sotto scacco l’intera area dei villaggi della zona sud fino a Fiumefreddo, Messina resta a secco. Allo stesso tempo, interi pozzi d’acqua sembrerebbero essere dati in totale monopolio ai cantieri. Le loro talpe, scavatrici di tunnel della devastazione, l’acqua per funzionare la trovano sempre; quella per impastare il cemento, sigillo sulla natura, la trovano sempre. Il loro impianto di betonaggio, a Savoca, è sempre in funzione. Assumendo furbamente le sembianze di progresso, il raddoppiamento ferroviario che interessa il messinese ha assunto tutte le caratteristiche che si prospettano per i futuri cantieri del ponte, mentre i mezzi pesanti transitano ormai da mesi nelle aree abitate di Roccalumera, Nizza, Savoca, Sant’Alessio, rendendole invivibili per gli abitanti stessi.

La prepotenza dei portatori d’interesse che, in barba ai dubbi sollevati dalle varie giunte comunali, sembrano procedere a spron battuto, senza troppo badare alle preoccupazioni di chi quei luoghi li abita.

Reputiamo non più sopportabile accettare questa svendita a trecentosessanta gradi delle nostre esistenze. Siamo continuamente sotto il ricatto di chi questi luoghi li vede solo come cave di denaro, continuamente sottoposti e sottoposte ad uno stato emergenziale che riduce sempre più le nostre esistenze ad una mera gestione tecnico-amministrativa. La Provincia assiste già alle prime frane; a sempre più persone manca l’acqua in casa; ancora e sempre più su tutti noi pende la spada di Damocle della cementificazione totale, della svendita delle nostre vite tutte ai signori del cemento e della digitalizzazione. Diventerà il loro hub logistico, per le loro merci, per i loro capitali, ma la Vita, in questi luoghi, sembra essere sempre meno benvenuta.

Riappropriamoci della nostra storia, del nostro territorio, delle nostre vite.”

Creiamo insieme gli spazi che sogniamo.

CREIAMO INSIEME GLI SPAZI CHE SOGNIAMO

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Questo testo è stato redatto durante l’estate del 2024 che ha visto la città di Messina attraversare una crisi idrica, preannuncio di cosa aspetta a quei territori e persone dapprima afflitti dalla desertificazione in progresso e, colposamente, espropriati di ogni funzione vitale per poter poi essere messi a profitto ad ogni costo.

Il testo è composto da una raccolta di informazioni già pubbliche, che messe insieme dipingono il colposo quadro che si cela dietro la messa a secco di intere aree della città (ed anche altrove) o, quantomeno, ne verrebbe a galla una parte. La raccolta è stata possibile anche all’interessamento di qualche persona che ha deciso, in un momento critico per la città come quello di inizio estate, di condividere una raccolta di link ad articoli che ricostruivano il tentativo di vendita a privato di parte dell’infrastruttura idrica del messinese.

Ad oggi non si hanno particolari informazioni circa il proseguo di questo bando di gara, che risulta risucchiato in una dinamica di difesa delle proprie posizioni e contrattazione. La città continua a versare rovinosamente in alternate e frequenti assenze di acqua ed incombe sempre più sovente la minaccia della cantierizzazione totale.

Insomma tutta una serie di intrecci che gravano sulla vite delle persone che abitano questi luoghi e che prospettano, per queste, tempi sempre più duri (eufemisticamente parlando)…

Ma ecco che ad aggiungersi a questa serie horror l’intervento nei cantieri del raddoppio ferroviario Giampilieri-Fiumefreddo, scavando tunnel si è estratto materiale che, sprigionato, non è di certo amico della vita dell’essere umano, ARSENICO. Si, la situazione, dicono, è rientrata.. ma a pioggia notizie che lo scavo di tunnel, da parte dello stesso contractor, non avrebbero fatto altro che portare con se devastazione ed irreversibili contaminazioni.

Le loro talpe scavano e scavano, stanno arrivando qui…

 

 


NON E’ FORSE QUESTA GUERRA?!

“Non è forse questa guerra?!” è stato scritto cercando di portare nella discussione collettiva, o individuale che sia, alcune tematiche riguardanti gli intrecci tra alcuni luoghi della Terra, nella fattispecie le rive dello Stretto, e le dinamiche predatorie del capitalismo.
La domanda che titola queste riflessioni e colletta di informazioni non vuole essere retorica, ma la messa a fuoco di un totale dilagare della forma guerra. La riorganizzazione dell’economia mondo sul modello del conflitto totale porta con se un alito mortale di cambiamenti e rinnovate frenesie; il nuovo capitale espande i suoi confini e necessita di tutta una rete di rinnovate infrastrutture a questo dedicate.

Nel corso di queste pagine si sono voluti mettere in evidenza alcuni processi o progetti che costituiscono parte degli sforzi indirizzati alla riorganizzazione del territorio sulla base delle necessità di un élite sempre più lontana dalle persone sulle quali impone i propri piani di accumulo. Qui la questione non è prendere il loro posto, bensì puntare un faro sul come e il chi ci affligge una tale prospettiva talmente mefitica e comprendere come scardinarne l’esistenza.

Elemento fondamentale di questa riflessione è il sempre più acuto sistema repressivo che il legislatore sta mettendo in atto nei confini del ‘bel paese’. Un sistema, quello paventato dal nuovo decreto sicurezza, sempre più stringente ed improntato sulla restrizione della libertà delle persone e la loro sempre più eventuale localizzazione forzata nelle varie forme detentive previste dalla genetica dell’ordine costituito. L’intento che ha mosso la stesura delle pagine di “Non è forse questa guerra?!” è stato quello di raccogliere tra loro dei tasselli che agli occhi di chi scrive costituiscono un più complessivo piano di appropriazione delle esistenze o, quanto meno, una replica di quanto già messo in atto altrove tanto nel suo complesso quanto in maniera frammentata. Dal progetto ponte, alle “smart cities” sino agli interessi che si cuciono sui corpi reclusi, migranti, arginati, incarcerati si evince l’esistenza di un filo rosso, pesante come mille catene, che svela gli intenti di quelle manacce che si allungano minacciose su queste zone del pianeta.

Con la coscienza che questa è una delle tante interpretazioni possibili di elementi ed avvenimenti, si vuole porre nel dibattito questo modo di intrecciarli tra loro. Condividere saperi e percorsi di significazione e conoscenza vuole essere un passo verso una sempre più fitta condivisioni di pratiche. Le informazioni raccolte nel corso di “Non è forse questa guerra?!” sono intrise delle emozioni di chi le intercettava e queste pagine non vogliono essere un triste nenia di rassegnazione, quanto un punto segnato in una, necessariamente, più vasta costellazione emozionale che sia invito ad un’azione sempre più di massa, ossia sempre meno mediata da strutture di delega e rappresentanza.


Di seguito viene riportata una parte delle pagine di “Non è forse questa guerra?!”, più precisamente una trascrizione di alcuni interventi fatti nel contesto di un corteo che ha attraversato le strade della città di Messina poco tempo fa:

“QUANDO LA MORTE ARRIVA CHE CI TROVI VIVI!!”

(INTERVENTI IN OCCASIONE DI UN CORTEO CONTRO IL DDL SICUREZZA)

Queste manifestazioni avvengono in un momento preciso che ci conviene mettere a fuoco altrimenti ci troverà impreparati. C’è la guerra nel mondo e tutti i governi stanno provando a stroncare il dissenso, vogliono che siamo carne da cannone nei loro programmi di sterminio e dominio, vogliono impedire alle nostre sensibilità di inceppare questo ingranaggio, di disertare, di urlare che la guerra è il cuore di un mondo senza cuore.

Se un governo, in un momento nel quale il conflitto sociale non è cosi travolgente ed incessante, come ci auspichiamo sia presto, sente la necessità di mettere mano al codice penale, per rivedere ed inasprire le pene previste già dal codice Rocco, scritto in epoca fascista, è perché in realtà si accorge che c’è una crisi di tenuta del loro mondo e che la loro legittimità è erosa istante dopo istante. Il sangue che smette di scorrere nelle vene dei morti, a volte scorre nelle nostre arterie e ci sale fino al volto, facendocelo diventare rosso di vergogna all’idea di non fare abbastanza per smascherare e inceppare la complicità dello Stato italiano e delle sue aziende con il genocidio in corso a Gaza. Ma sanno benissimo, quelli che governano, quelli che guadagnano miliardi fabbricando e vendendo armi, che ogni giorno per le strade, nelle galere, tra gli oppressi e le oppresse possono succedere spasmi di rivolta, può accadere la diserzione, si può scegliere la ribellione.

Cortei, presidi, incontri, chiacchierate fuori dai recinti, ci servono a prendere coraggio; davanti soprattutto a tutto il dispiegamento di polizia, davanti a tutte le camionette schierate per impedire che le nostre coscienze, i nostri dolori, incontrino quelli delle persone per strada, non dobbiamo rassegnarci.. mentre loro blindano il dissenso dobbiamo fare in modo che questi provvedimenti diventino un boomerang e gli si ritorcano tutti contro.

Non ci intimidirete: non smetteremo mai di urlare che sabotare la guerra è giusto, disertare la guerra è giusto, opporsi con i nostri corpi ai cantieri del ponte è giusto. Non ci impedirete di dirlo, non ci intimidirete con il vostro ‘terrorismo della parola’.

Davanti al tribunale adesso sarebbe bello che tutte e tutti coloro che sentono l’esigenza di opporsi a questo decreto sicurezza si prendessero l’impegno a solidarizzare con le persone costrette, da quelle aule, alla carcerazione o a varie misure repressive. La solidarietà è un’arma che non smetteremo mai di utilizzare. Fanno di tutto per convincerci che non ne valga la pena, per farci soccombere a rapporti di forza per nulla favorevoli. Ed invece la determinazione con cui ci stiamo prendendo le strade può farci accorgere che non contano i numeri, ma la qualità con cui questo avviene. Dobbiamo essere pronte a ribellarci, non abbiamo chissà quale possibilità di far si che il Senato interrompa questo decreto fascista, ma abbiamo la possibilità di prendere la rincorsa, di dire che ci fa schifo respirare la stessa aria di digos e guardie e che non ne possiamo più di questo Stato di polizia, di tutta questa gente con il mitra in mano.

Tutte le volte che un conflitto sociale esonda dagli argini nel quale vorrebbero confinarlo, tutte le volte che il malcontento si fa sommossa concreta, sentiamo un coro di pennivendoli parlare di ‘infiltrati’. Noi vogliamo dire una cosa forte e chiara: la violenza permea questo mondo in tutte le sue forme, pervade i rapporti sociali in cui viviamo immersi. Cinque persone muoiono ogni giorno sul posto di lavoro. Settantasette detenuti e sette secondini si sono suicidati nel corso di quest’anno. Milioni di giovani russi ed ucraini sono stati mandati al fronte a morire come carne da cannone. Chi governa ci considera pedine sul loro scacchiere? allora rovesciamolo; dobbiamo riprenderci in mano la vita, la ribellione è il nostro modo di farlo. E “quando la morte arriva, che ci trovi vivi”.

Che sia intifada pure qua..

Il decreto sicurezza non è qualcosa che spunta all’improvviso, è solo l’ultima versione di un processo che va avanti da decenni, che diventa sempre più pressante per le persone che stanno peggio e che hanno meno strumenti, ossia coloro che con più probabilità potrebbero raggiungere il giro di boa e quindi insorgere. Lo abbiamo già visto con il più recente lockdown, momento in cui certe persone non sarebbero potute andare avanti senza l’aiuto delle varie solidarietà. Tutto questo per dire che sebbene il governo Meloni e tutti quelli che gli gravidano intorno non abbiano remore a mostrare tutto il fascismo che è in loro, bisogna anzitutto chiedersi cos’è la siurezza e cosa ci fanno e ci hanno fatto in nome di questa.

Si, contro il decreto sicurezza, ma non dimentichiamoci che questa è un aria che tira da molto più tempo e che, quindi, dovremmo tentare di vedere le cose nel loro raggio più ampio e riconoscere una volta e per tutte questo carattere mostruoso degli Stati e di chi li governa.

Siamo circondati da telecamere, in meno di un kilometro si possono contare svariate decine di telecamere, più tutte quelle mobili dei guardoni di Stato. Da queste parti l’ingente telecamerizzazione della città e la morsa repressiva del decreto sicurezza deve allarmarci particolarmente, non solo per le misure appositamente indicate per chi si oppone alla costruzione di grandi opere, come il ponte sullo Stretto; ma anche per il coinvolgimento di Messina nel progetto ‘Smart cities’. Si siglano accordi per installare migliaia e migliaia di telecamere. Ma quanto una telecamera aiuta le persone ad essere più sicure?! E quanto invece aiuta a ricattarle?!

Ma oltre queste domande, dovremmo interrogarci sulla provenienza di tutti questi sistemi e tecnologie di sorveglianza, infatti sono tutte tecnologie elaborate e sperimentate da Israele sui palestinesi e sulle palestinesi come fossero cavie umane; e se non in Palestina, queste tecnologie di controllo, sono sperimentate nei confini killer dell’Unione Europea, per profilare e deportare persone migranti. Cosa sosteniamo accettando l’installazione di tutti questi occhi elettronici per le città?!

Nel nostro paese durante il fascismo è stato legale deportare gli ebrei, se alla parola ebreo ora sostituiamo la parola clandestino ci renderemo presto conto che non c’è nulla da festeggiare per il fatto che abbiamo una “bella Costituzione”. La Costituzione non ci ha salvato dallo schifo fatto in questi anni, la democrazia è morta!! Si tratta ora di capire a quali risorse attingere mentre questo deserto avanza da tutti i lati; e, certamente, queste piazze sono una prima fonte d’acqua, la possibilità d’incontrarsi, trovare i nostri codici di riconoscimento. Il punto di partenza che potrebbe accomunarci è che il rifiuto ad essere schiavi è ciò che cambierà il mondo. Quindi se lo faremo in maniera tanto individuale quanto comune di certo almeno di un pochino il volto del mondo, che ci appare cosi opprimente e spesso ci condanna all’assillo di un’impotenza a cui comunque non vogliamo soggiacere, potrebbe prendere altre forme. E dovremmo tenere bene a mente che questa possibilità scava nelle nostre vite ogni giorno, in ogni momento dell’esistenza.

Contro la guerra degli Stati dobbiamo renderci conto che dentro di noi è possibile ogni giorno dichiarare guerra all’organizzazione delle apparenze che consente l’allestimento di questo schifo di mondo. Portiamoci a casa la coscienza indelebile che possiamo cambiare la nostra vita ogni giorno, senza introiettare i codici di chi ci vorrebbe vedere obbedire al regno delle gerarchie e dire “si signore”.

Prepariamoci a disertare, facciamo scorrere questa urgenza in ogni luogo delle nostre vite, facciamola dilagare. Non esisterà così nessun cordone di celerini che potrà impedire il diffondersi di sguardi e azioni contro la guerra, contro il ddl sicurezza, contro i loro manganelli…

…DISERTARE È GIUSTO, INSORGERE È GIUSTO!!!

“NO ALLA GUERRA DEGLI STATI È LA SOLA RISPOSTA POSSIBILE IN QUESTO MOMENTO […]. NON UN VAGO PACIFISMO UMANITARISTA […], MA UN’ATTENTA RISPOSTA AGLI SFRUTTATORI E AI DOMINATORI DI OGNI GENERE.”

A.M BONANNO “PALESTINA MON AMOUR”


DI SEGUITO I FILE PER LA LETTURA E PER LA STAMPA:

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IL VOSTRO PROGRESSO, LA NOSTRA COLONIZZAZIONE. NOTE DA SUD, TRA SCILLA E CARIDDI

 

 

Il mese scorso, le commissioni Giustizia e Affari costituzionali della Camera hanno approvato un emendamento al pacchetto sicurezza che intende inasprire le pene per chi protesta contro le grandi opere infrastrutturali, come il ponte sullo Stretto o la TAV (tra le tante in corso di realizzazione o di progettazione).

L’emendamento, proposto da un deputato leghista e sottoscritto anche dagli altri partiti di maggioranza, intende colpire chi protesta in modo “minaccioso o violento” contro la costruzione di una grande opera pubblica o di un’infrastruttura strategica, rischiando oltre 25 anni di carcere. Si introduce poi una nuova aggravante del reato di resistenza a pubblico ufficiale: le pene aumentano “se la violenza o la minaccia è commessa nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero con armi; o da persona travisata; o da più persone riunite; o con scritto anonimo o in modo simbolico”.

Come se non bastasse, lo Stato potrà anticipare le spese legali agli “ufficiali o agenti di pubblica sicurezza indagati o imputati per fatti inerenti al servizio”, dunque accusati di violenza nei confronti dei manifestanti; addirittura raddoppiano il budget che passa da 5000 a 10000 euro per ciascuna fase del procedimento processuale. In totale, per la difesa degli sbirri violenti vengono stanziati 860mila euro l’anno, a partire dal 2024.

In una spirale di forsennato giustizialismo e legalismo nel nome del “progresso”, la scure della repressione si abbatte sulle individualità in lotta per sottrarre alle sporche mani di Stato e capitale tutti quei territori, come anche quello ‘libidico’, presi costantemente di mira da interessi di speculazione e mero guadagno economico.

Mentre la Sicilia è in piena emergenza idrica e interi quartieri della città di Messina si ritrovano senza più acqua nelle case – è notizia recente che in questo contesto, come sempre avviene nei momenti emergenziali, la rete idrica di Messina e provincia è stata privatizzata – continuano spietati i piani di dominio e distruzione del vivente, che intendono sacrificare corpi, comunità e territori sull’altare del progresso. Così in nome di questo presunto sviluppo si giustificano enormi appropriazioni indebite delle nostre esistenze tutte: il loro progresso è solo un ricatto, la loro visione di “migliore”, intrisa di un ‘do ut des’ spietato ed unicamente a nostre spese, non propina mai sviluppo se non in cambio del nostro esistere, dell’essere al mondo. Così che il fetido avanzare delle frontiere del capitale necessita dell’innervatura linfatica affinché questo corpo, formato da diversi organi, possa crescere e crescere, senza mai badare alla distruzione del suo passare.

Di certo non si considera la costruzione delle infrastrutture del capitale mai priva di compromessi e devastazione, ma i contorni si fanno ancora più cupi quando un mega progetto infrastrutturale, come quello del ponte sullo Stretto, finisce con il diventare il ‘pivot’ di ogni altro progetto, assorbendo in sé ogni piano pregresso e futuro circa quel determinato territorio. In poche parole, un ricatto bello e buono. Così che mentre si aspetta l’ufficiale iniziare di trivellazioni, espropri e furti vari, insomma della cantierizzazione totale, i detrattori del nostro presente e futuro hanno gia portato qui tutte le loro macchine di morte, che si infiltrano nel nostro humus vitale come talpe.

Ci chiediamo allora quale progresso possa essere quello che ha trasformato la Sicilia in una terra di petrolichimici, basi e poligoni militari, raffinerie, galere ed emigrazione forzata. Un “progresso” che vende posti di lavoro in cambio di veleni e malattie, radiazioni elettromagnetiche e militari per le strade. Supposti sviluppi arrivati in Sicilia promettendo futuri radianti e dignità a colpi di lavoro: lo abbiamo già visto, ad esempio, con il polo petrolchimico nel siracusano, una zona ormai compromessa da esalazioni e corrosione degli spazi. Case vennero abattute per fare largo a questi mostri, lavoro venne promesso; ed infine, crescita economica a dismisura per tutti e tutte. Quello che si è ottenuto è povertà, monopolio dell’indotto lavorativo della zona, malattia ed aria cancerogena. Dov’è finito il futuro radioso? Quale riscontro con la realtà avevano le promesse vuote di signori della politica e del business? Quelle torri che esalano fumo nero simboleggiano, tronfie e prepotenti, l’inganno del progresso e della delega che ha trasformato in mera gestione amministrativa lo stesso processo vitale. Rappresentano le grinfie del luminoso oblio entro la quale ci vorrebbero costringere. Rappresentano anche quello stesso inganno che si sta profilando per le persone dello Stretto.

Il progetto del ponte sullo Stretto, nella retorica dei detrattori della vita, sarebbe funzionale ad accelerare i processi di turistificazione, fonte a loro volta di lavoro precario e sottopagato per chi in questi territori ci vive e non viene in vacanza. La solita storiella che eguaglia turismo e ricchezza diffusa per gli abitanti di un luogo non è altro che l’ennesima menzogna malcelante un futuro (immediato) di estrazione forzata e devastazione diffusa, in cambio di sole briciole (come se poi un qualunque supposto guadagno potesse essere bastevole per la posta in gioco).
Se dunque da una parte la Sicilia viene venduta come una vetrina per turisti, una sorta di paradiso terrestre dove trascorrere le ferie, andare al mare e degustare il buon cibo locale; dall’altra parte si concretizza come una tra le frontiere che continua a uccidere quotidianamente, trasformando il Mediterraneo in un cimitero per chi non ha avuto il privilegio dei “requisiti” giusti per attraversarlo. Ricco, bianco e occidentale?! Allora benvenuto; se sei povero, migrante e non bianco, invece, la deportazione verso il CPR o carcere più vicino diventa come un percorso naturale, una sorte quasi scontata.

Strumenti, quelli detentivi, di messa a profitto di quei corpi “altri” da cui immunizzarsi! Solo su quest’isola ci sono ventitre istituiti detentivi, cinque hotspots, due CPR (più il CPRI di Pozzallo), che rendono la Sicilia una vera e propria colonia penale. Quindici tra basi e installazioni militari USA, due (quelle ufficiali) basi NATO, tre raffinerie.
Uno scenario devastante, un territorio violato e violentato nel nome del profitto e dell’estrazione di risorse. Terre evidentemente da rendere inabitabili, da spopolare e mettere a servizio di loschi affari; come la costituzione di poligoni di tiro, dove fare il “giochetto” della guerra, stesso giochetto che garantisce morte e conquista altrove (e neanche troppo altrove); estrazione di energia rinnovabile, nuove strutture del capitale, al servizio sempre della sola produzione e, dunque, della schiavitù umana; costituzione di hub logistici, stesso piano entro cui si inscrive la costruzione del ponte sullo Stretto; e a rischio di ripetizione, il proliferare dei luoghi di detenzione, della localizzazione forzata delle persone, muri che sono argini per la gioia umana.

Ed arriviamo alla Calabria, costellata di cattedrali nel deserto e opere incompiute.

Mentre la nostra sfera del desiderio, ricca dello Stretto indispensabile, va letteralmente in fumo insieme ai nostri boschi secolari, le nostre sorgenti sono secche e le falde ormai prosciugate, le cattedrali nel deserto continuano a configurarsi come l’unica possibilità per i nostri territori, monumenti a scempio delle nostre vite sacrificate sull’altare di un presunto sviluppo di cui non sentiamo alcun bisogno, approccio coloniale dello stato italiano garantito dall’avallo colluso della classe politica regionale e locale e dal malaffare ‘ndranghetista. Opere pubbliche se completate lasciate marcire nel degrado, oppure a malapena cominciate e poi abortite, benché finanziate con grande sperpero di pubblico denaro. Uno sfacciato spreco di risorse economiche che avrebbero dovuto essere impiegate altrove. E così non smettiamo di essere terra di incessante emigrazione e di mancata accoglienza, di servizi e trasporti pubblici assenti.

Ma non siamo più negli anni in cui, in nome del progresso e dello sviluppo di questo stato nazione, che continua a trattarci come colonia da sfruttare e da cui estrarre valore fino alla nuda vita, dobbiamo continuare a barattare il pane con la morte, una Calabria terra di lavoro avvelenato come nell’ex polo chimico Montedison della Pertusola a Crotone, città edificata con i rifiuti tossici e i veleni industriali impastati nei materiali di costruzione di case e strade. Terra di promesse e pacchetti fantasma: il V Centro Siderurgico nella Piana di Gioia Tauro, la Liquichimica di Saline Jonica, impianti morti prima di essere nati, terra di espropri e scempi ambientali, di bonifiche mai effettuate, di discariche private più o meno autorizzate ma sempre supertossiche, di torrenti che straripano e interi territori che franano, di utilizzo delle ‘ndrine per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi, interrati in grotte e fiumi o nelle “navi dei veleni”, carrette del mare stipate di fusti di scorie nucleari, affondate a decine lungo le nostre coste, di dighe costate centinaia di miliardi, come la diga sul Metramo mai collegata alla rete di distribuzione né per uso potabile né per uso irriguo a servizio della Piana di Gioia Tauro,  mentre città e campagne bruciano di sete o bruciano letteralmente negli incendi annualmente programmati all’arrivo del solleone e il deserto continua ad avanzare.

Si esortano le famiglie all’uso consapevole dell’acqua per evitare gli sprechi, ma non si mette in atto alcun intervento per evitare le enormi perdite di acquedotti vecchi ridotti a colabrodo. Così si invoca a gran voce l’arrivo di piogge in piena estate, le uniche che possono salvarci dal morire disidratati. Anzi Sorical ci consiglia di utilizzare per tanti usi l’acqua già usata. Si grida alla siccità ed al pericolo della desertificazione, ma si continuano a tagliare boschi per piantare pale eoliche e costruire le strade solo per il transito dei megatir necessari ai cantieri. Sull’altare della transizione verde lo stato italiano e le grandi multinazionali dell’energia stanno facendo grossi affari e chiunque proverà ad opporsi verrà duramente perseguitato grazie all’ultimo decreto sicurezza. E così su montagne e colline ancora incontaminate e al largo delle nostre coste ioniche svetteranno gigantesche pale eoliche e  i campi agricoli si stanno riempendo di pannelli fotovoltaici. Il Marchesato crotonese, le Preserre catanzaresi e vibonesi, la Locride sono i territori in cui avanza l’aggressione incontrollata dei nuovi megaimpianti eolici: 440 impianti attivi e 157 progetti in corso.

Ma la stessa nuova sfrenata corsa alla produzione di energia green non riesce a staccarsi dalla modalità di lasciarsi dietro delle cattedrali nel deserto. Gli impianti green divorano il nostro territorio, ma troppo spesso sono impianti fantasma: pale eoliche pronte all’uso mai messe in funzione, come le mostruose torri eoliche del crotonese, a centinaia sparpagliate per chilometri ma ne girano pochissime; o interi tetti di scuole ricoperti di pannelli fotovoltaici mai collegati alla rete di distribuzione. Ad Antonimina alle porte dell’Aspromonte, la torre eolica di 150 metri nella magnifica località del monte Trepizzi non ha mai preso a funzionare. In questo assalto ammantato di green si inserisce anche il progetto del rigassificatore alle spalle del porto di Gioia Tauro e proliferano impianti proposti come assolutamente innovativi, come la criminale idea di una centrale idroelettrica di pompaggio dell’acqua del mare che la multinazionale Edison chiede di piazzare poco distante da Scilla in piena zona di protezione speciale della Costa Viola. Appalti milionari per progetti ambiziosi e di interesse nazionale, grazie alle facilitazioni procedurali garantite dal pacchetto energia del Governo Meloni, che pensa alla nostra regione come un hub energetico tutto proiettato all’esportazione dell’energia elettrica prodotta (ne esportiamo già i 2 terzi di quella che produciamo grazie anche alle 4 centrali a turbogas già in funzione). Si continuano a progettare opere prima di aver fatto gli studi adeguati; così poi si trova cobalto radioattivo scavando gallerie, come è stato per l’arteria stradale Sibari- Sila o per l’aviosuperficie di Scalea, costruita sul letto di un fiume ad elevata pericolosità e limitrofa ad una zona di protezione speciale, per di più interessata a fenomeni di erosione.

Come puoi tu, calabrese o siciliano, credere che il Ponte sullo Stretto non rientri in questa logica illogica di (non)costruzione e pura devastazione? Come puoi tu credere più alle parole di un nessuno proveniente da altrove, che ai tuoi occhi e ai disagi che vive la tua gente? E non è lampante dunque che quest’ultima trovata dello spacchettamento del progetto definitivo in fasi costruttive non produrrebbe altro che una nuova annunciata devastante incompiuta di uno sviluppo di cui non abbiamo alcun bisogno?

Sappiamo bene verso dove volgere questi sguardi, sappiamo bene chi e quali strutture ci costringono in queste catene. Sappiamo bene che firma porta la militarizzazione sfrenata ed il profitto sul sangue, sappiamo bene anche chi sono i complici, colpevoli tanto quanto gli ideatori di questi foschi intenti. Leonardo S.p.a. capolista delle fabbriche di morte, paziente zero dell’economia targata bombe e bombardamenti, droni e software di spionaggio utili alla repressione di popolazioni in rivolta. RFI, complice del monopolio armato di capitalisti e statisti firma accordi di precedenza a tutto campo della mobilità militare, immaginando sempre di più la propria infrastruttura a misura bellica. WeBuild, incaricata del riadattamento del manto autostradale per renderlo idoneo al passaggio di mezzi, anche pesanti, militari. Stretto S.p.a., della serie “duri a morire”, ripresenta il tombale volto di Ciucci a rassicurare tutte e tutti circa la cura del territorio di cui è capace una società che, sotto il nome Salini-Impregilio, si è macchiata di crimini orribili durante la realizzazione di mega infrastrutture idro-elettriche in paesi dell’Africa e del Sud-America. Medihospes, società gestrice del hotspot di Messina, vince gli appalti per la gestione dei futuri CPR italiani nei confini albanesi, a braccia aperte brama e produce profitto sull’accoglienza e la CARCERAZIONE dei migranti.

Tutti tentacoli del capitalismo che dirigono ogni loro sforzo e azione verso l’aridificazione della Terra e degli spiriti di chi la abita con la sfacciata connivenza di Stati e governi, con la spietata tutela di sbirri, eserciti e procure che sempre meno lesinano nel premere grilletti, far scoccare manganellate, saturare l’aria di gas lacrimogeni ed infliggere condanne liberticide che si configurano come vere e proprie torture.

Lo Stato italiano tortura, lo fa attraverso il braccio armato dei suoi sgherri; lo fa finanziando lager in Libia, CPR in Albania, con ogni esternalizzazione delle frontiere e la complicità di Frontex o altre cooperative intrallazzate nella c.d. “accoglienza”. La morsa repressiva non smette di stringersi, si adopera con nuovi strumenti legislativi ed esecutivi, innervando le città di occhi elettronici e dotando di sempre più strumenti offensivi gli operatori di polizia. Quanto più aumenta il potenziale di conflitto determinato dalla pressione oppresoria dello Stato, tanto più aumenta il pericolo per il loro monopolio della violenza, tanto più per noi è un segno che le gambe del Leviatano adesso tremano. Più la bestia affila gli artigli più significa che si sente sotto attacco; tanto più si avvicinano le ‘notti bellissime’ tanto più si inasprirà il conflitto interno ad opera delle istituzioni contro i vagabondi di pensieri erranti, di logiche e pensieri ‘altri’, completamente stranieri, completamente indefinibili e, dunque, liberi.

Un pensiero non può che essere allora rivolto a chiunque lotta contro le galere; a chiunque continui a bruciare quei centri di detenzione e rimpatrio; a tutte quelle persone che quotidianamente sfidano la fissità dei confini; a chiunque resista e combatta questa macchina fagocitante e distruttiva. Ad ogni compagna e compagno con lo sguardo incendiario che non permetterà mai a nessuno di occultarlo ne tantomeno di spegnerlo. Ad ogni insurrezione, personale o collettiva che sia; ad ogni diserzione, e che queste si moltiplichino infrangendosi contro il loro regno del cieco asservimento.

Col cuore in gola diciamo che a questa menzogna del progresso e dello sviluppo non ci crediamo; e che, all’ennesimo progetto coloniale, continueremo ad opporci con ogni mezzo necessario.

SABATO 10 AGOSTO CORTEO NO PONTE, MESSINA, ORE 18:30 P.ZZA CAIROLI.


CEMENTO MORI

contro il ponte sullo Stretto

Oggi mi libero dalla paura… la pazienza si vendica.

Scilla «Latra terribilmente: la voce è quella di un cucciolo di una cagna, ma è un mostro spaventoso, e nessuno, neanche un dio, avrebbe piacere a trovarsi sulla sua strada. Ha dodici piedi, tutti orribili e sei colli lunghissimi, e su ognuno di loro una testa spaventosa e tre file di denti fitti e serrati, pieni di nera morte. Per metà è immersa nella grotta profonda, ma sporge le teste fuori dal baratro orribile e là pesca, frugando intorno allo scoglio, delfini e foche e bestie anche più grandi. Nessun navigante può vantarsi di esserle sfuggito illeso sulla sua nave; con ogni testa afferra un uomo, portandolo via dalla nave nera». «Di fronte a Scilla sta Cariddi in agguato all’ombra del fogliame di un immenso fico, su una rupe inaccessibile. Il mostro Cariddi per tre volte al giorno inghiotte e vomita dall’orrenda bocca enormi quantità di acqua con tutto quel che contiene».
Così Circe descrive a Odisseo questo pezzetto di mare, crocevia dei più diversi popoli che lo attraversano da sempre, incontrandosi, commerciando e scontrandosi. Due mostruose figure femminili che distruggono chiunque passi fra loro, come due lame di una stessa cesoia.

E se fossero invece le anime di una terra stanca di essere stuprata? Di un Sud, tra i ‘sud’ del mondo, dal quale Stato e capitale estraggono valore?

Succhiano vita, cacano disperazione e ce la spacciano per progresso: «Gioite selvaggi, lavorerete per costruire la vostra stessa miseria. Sarete lavoratori e lavoratrici in nero al servizio dell’industria turistica e i vostri figli cresceranno in placente con alto contenuto di plastica. Sarete operai e operaie del petrolchimico, vi spetta in premio un cancro per famiglia. Sarete operatori e operatrici nei lager per migranti, secondini, militari e poliziotti: e mangerete pane condito col sangue e le lacrime dei vostri vicini di casa. La maggior parte di voi rimarrà disoccupata, ma se ci supplicherete come si deve potremmo sempre edificare altre magnifiche opere che vi daranno da sopravvivere e vi condurranno più rapidamente alla morte, vi libereremo così anche dall’onere di lavorare!».

Ma noi, avanzi di furti subìti, dignità del dubbio che sa imporsi, grideremo il nostro discorso politico senza saliva: «Se invece fossimo il vento e la sabbia che si incontrano e si fanno bufera? Se fossimo le onde che stanno per rompersi? Siamo la forza delle nostre montagne e i nostri sogni sono radici di ginestra che cresce nel fuoco. Siamo pazienze stanche pronte a vendicarsi. E la zagara ci accompagna e la madonna nera ci protegge. E i cormorani e i pescispada ci sono amici. Nelle vene ci scorre il sangue brigante delle lotte passate. La nostra vita non è in vendita!».

Il ponte sullo Stretto, nell’ideologia prima e nella messa in opera dei lavori poi, è l’ultimo manifesto dell’economia simbolica del potere. Ma chi è questo potere? Nella fitta maglia dei rapporti sociali e politici è possibile cercare, con l’anima in spalla e la determinazione in mano, i redattori di questa storia che ha ancora la possibilità di finire in modo diverso.

 

Webuild: anatomia del cemento

Una rapida occhiata al sito di Webuild suggerisce un’impresa non solo attenta a valori come la sostenibilità o la compatibilità delle sue mega-infrastrutture con i territori e chi li abita, ma anche promotrice di uno sviluppo incentrato su «un domani migliore» – per dirla con le parole dell’amministratore delegato Pietro Salini.

Ma la domanda qui sorge spontanea: migliore per chi? Infatti, a guardar bene gli effetti degli interessi economici del gruppo in determinate aree si può nitidamente vedere quale sia il modello di sviluppo tanto caro a Webuild e a chi appalta la realizzazione di opere per il “bene pubblico” – che coinciderebbe con l’aumento dei profitti per i soliti noti. La necessità di estrarre valore ad ogni costo ha troppo spesso indotto a nascondere volutamente tutta una serie di effetti di questa visione del mondo: ma quegli effetti sono invece ciò che non si può più tacere, né tantomeno accettare.

La specializzazione del gruppo Webuild è la costruzione di dighe: operando principalmente nel continente africano, in Asia e nel latino-america, ha costruito più di 300 impianti.
Ma webuild è solo il capitolo più recente di un percorso imprenditoriale che ha inizio negli anni ‘30 del secolo scorso. Un capitolo che ha inizio quando la Salini s.p.a. si consolida nel mercato edilizio e infrastrutturale in Italia, dopo Impregilo e Astaldi.

Diversi sono gli esempi in cui il gruppo imprenditoriale, con il suo agire, ha determinato una serie di effetti devastanti sui luoghi interessati dalle sue opere e sulle persone che li abitavano. Pensiamo alla costruzione della diga di El Quimbo, in Colombia, per la quale sono stati inondati circa 8.500 ettari di terra, che erano prima coltivati e servivano in qualche modo da sussistenza per chi viveva quelle zone; inoltre, non si sarebbe veramente tenuto conto di quanto la deviazione dei flussi idrici interessati nella costruzione della diga avrebbe potuto impattare negativamente sull’abitabilità di quelle zone per diverse specie, tra cui quella umana. In altre parole, il tessuto sociale, economico e biologico è stato del tutto lacerato dalla predominanza del cemento. L’imposizione di un processo tecnologico, giustificato dalla necessità di produrre energia elettrica (ma per chi? e per cosa?), ha avuto conseguenze devastanti ovunque si sia verificato.

Altro progetto esemplificativo del progresso targato Webuild è la diga Gibe III, costruita sulla valle dell’Omo tra Etiopia e Kenya. Gli scopi di questa infrastruttura idroelettrica sono quello di produrre energia per il compartimento industriale (ossia da vendere sul mercato) e quello di deviare l’acqua per l’irrigazione di circa 500 ettari di terreno destinati ad uso commerciale dallo Stato etiope. Si possono anche solamente immaginare quali siano stati gli effetti della costruzione della Gibe III su popolazioni per cui l’acqua e la terra erano tutto.
Vengono private dei mezzi di sussistenza di base parecchie persone che sono costrette per lo più ad andare a (soprav)vivere altrove. Inoltre, da un rapporto dell’human right watch del 2012, emergono dettagli tetri circa il trattamento riservato a chi aveva avuto l’ardire di opporsi a questo stupro della Terra. Il nome Gibe III proviene dall’esistenza di Gibe I e Gibe II, altre due turbine idroelettriche costruite nella Valle dell’Omo. Tra l’altro per la Gibe II anche il governo italiano prese parte all’opera attraverso il ministero degli affari esteri.

Ma i dettagli inquietanti sembrano non finire mai quando si scava nel passato della ex Salini-Impregilo, coinvolta anche nella costruzione della diga del Chixoy, in Guatemala: per portare a termine i ‘lavori’, in quel caso, intere comunità vennero disgregate e centinaia di persone massacrate a morte.

Attualmente Webuild ha in corso, solo nel Meridione d’Italia, circa 19 megaprogetti (che spaziano dalla realizzazione di nuove linee ferroviarie ad alta velocità e alta capacità, a tutta una serie di lotti autostradali, e infine ad alcune linee metropolitane). Tutto questo apparato cantieristico per l’infrastruttura è retto da due «centri di addestramento avanzato per il lavoro» che si trovano in Sicilia e in Campania: terminologia niente affatto casuale, implicita ammissione di una vera e propria invasione, nella cui logica interna la persona che lavora in cantiere è considerata alla stregua di personale militare.
Questa occupazione economico-militare dei territori fa tanto pensare a un dislocamento bellico pronto alla grande operazione, come potrebbe essere la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina. Le modalità sono sempre le stesse, la predatorietà pure.
Sembra quasi che le loro reti, i loro jersey e le loro ruspe appaiano tutte all’improvviso, precedute da una retorica di miglioramento delle condizioni dei luoghi dove operano, praticano senza pietà le loro amputazioni su di un corpo che ai loro occhi algoritmici appare ridotto in fin di vita ed è pertanto un’ottima cavia per sperimentare e per arricchirsi.

La logica dell’invasione pervade in tutti i sensi, la comunicazione e le modalità operative di queste corporazioni; Webuild non è l’unica a leccarsi i baffi dinanzi a un bottino appetibile a molti interessi – tutti volti al mero guadagno, al crescere dei flussi turistici, alla necessità di una sempre maggiore quantità di energia elettrica, beffardamente spacciata per green. La logica dell’invasione, le sue ruspe e gli scudi e i manganelli che le ‘scortano’ quando alziamo la testa, incalza ogni giorno i nostri corpi, bracca le fibre di cui è fatta la nostra vita.

Ma la cattura non è mai completa: ogni giorno succede che qualche sensibilità si incammini, da sola o in compagnia, in direzione ostinata e contraria; e non smettono di aprirsi crepe, e varchi, ogni volta che i nostri polmoni riescono a non arrendersi all’aria del tempo, e i nostri cuori a respirare, disertare, insorgere.

 

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Terra, Mare e Libertà: contro il ponte sullo Stretto di Messina. Corteo noPonte 12 Agosto.

(Maschile e femminile sono casualmente alternati)

Con l’insediamento del governo Meloni è stato riesumato il progetto del ponte sullo Stretto di Messina, una “grande opera” che puzza di propaganda fascista, con la differenza che cento anni fa venivano almeno costruite anche case popolari e bonificate aree inospitali: la carota per far passare il bastone delle leggi fascistissime, dell’olio di ricino, della guerra e della miseria dilagante. I nostri moderni patrioti invece si comportano come se non avessero alcuna necessità di conquistarsi il consenso tramite interventi che possano apparire di una qualche utilità per chi vive questo territorio (il sud fisico e psicogeografico di tutte le periferie del mondo). Sono convinti che il popolo bue accetterà a testa bassa l’ennesima devastazione, con il trito, ritrito e putrido miraggio di posti di lavoro per la realizzazione di questa mastodontica impresa – alla cui realizzazione finale non crede più nessuno, ma il cui corollario di movimentazione terra e denaro fa gola a molti profittatori.
Così, mentre in Emilia Romagna impazzavano le alluvioni, lorsignori si facevano fotografare con la pala in una mano e con l’altra votavano il decreto per il collegamento stabile tra la Sicilia e la Calabria. Lo chiamano “progresso” gli importatori di civilizzazione, ma qui persino le cozze nel lago di Ganzirri sanno che si tratta dell’ennesimo progetto coloniale. Lo sa chi vive a Milazzo, Priolo, Augusta, Gela e Melilli in balìa dell’industria petrolchimica che li ha sfrattati quando è stata costruita, sfruttati e ammalate nel periodo d’oro della produzione e cassaintegrati quando ha ceduto il passo alla concorrenza estera. Lo sanno i niscemesi ai quali la costruzione della base militare USA ha tolto la frescura della sughereta e l’acqua corrente, dando loro in cambio le radiazioni del MUOS e i militari a spadroneggiare per le strade. Lo sanno i granelli di sabbia di Punta Bianca, la Beccaccia e il Martin Pescatore dei Nebrodi, sfregiati dalle esercitazioni militari. Lo sanno gli aranci della Piana di Catania, estirpati per far spazio all’allargamento della base NATO di Sigonella. Lo sanno pure i semi privatizzati dalla Monsanto e i contadini denunciati per aver fatto le talee di pomodori infischiandosene dei brevetti.
Ne fanno esperienza tutte le disoccupate dell’isola e anche chi è emigrato perché non voleva essere più disoccupato.
Ne fanno esperienza i 6000 detenuti e detenute nelle 23 carceri siciliane che fanno dell’isola una colonia penale molecolare.
E ne hanno fatto esperienza i due prigionieri che sono morti inascoltati nella galera di Augusta nel corso di uno sciopero della fame. Ne fanno esperienza ogni giorno le migranti che si sono rivoltate nel CPR di Pian del Lago (Caltanissetta) a inizio luglio e i braccianti agricoli nei campi del vittoriese. E lo stesso vale per Daouda Diane: l’operaio ivoriano scomparso un anno fa nel siracusano, due giorni dopo aver denunciato in un video la situazione di caporalato nel cementificio di Acate dove lavorava. Colonia è quel territorio occupato con la forza, violentato per profitto ed estrazione di risorse, militarizzato per reprimere ogni forma di vita che insorge contro lo sfruttamento. Che il risorgimento in Sicilia ha significato deportazione e repressione violenta è scritto nelle memorie del sangue di noi indigeni, nipoti e pronipoti di chi era partito garibaldino e si scoprì brigante all’indomani dell’unità d’italia. Il Ponte ai nostri occhi significa tutto questo. I lavori, pur mancando ancora il progetto definitivo, sono già stati assegnati alle solite note aziende armate di cemento e sputazza: WeBuild (ex Salini Impregilo), che furono i costruttori della base di Sigonella, dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria e i responsabili dello smaltimento dei rifiuti in Campania, per nominare giusto un paio delle loro gloriose imprese. Queste consapevolezze coinvolgono gran parte della comunità che abita in questa terra, e si declinano a vari differenti e difformi livelli di critica.
La critica, come fanno le radici degli alberi, scava smuovendo dubbi: quelle del Salice arrivano in profondità, quelle del Limone sono invece piccole, quelle del Ficus sono addirittura aeree. Tanti alberi, diverse radici nella stessa terra.
“Ci immaginiamo anarchiche e anarchici, e quindi è anche a noi che parliamo, sebbene sarebbe bello avere una lingua comune anche con chi si immagina qualcos’altro o, e chissà non sia la scelta più saggia, non si immagina per nulla” (Terra e libertà, articolo tratto da “Black seed, a green anarchist journal”, trad. hirundo 2017).
Per queste ragioni abbiamo cominciato questo percorso di lotta intrecciando i nostri passi e incrociando i nostri sguardi con tante anime diverse, col comune obiettivo di frapporci all’apertura dei cantieri. Affronteremo a testa alta chiunque provi a reprimere la forza generativa che sgorga dal cuore delle lotte, chiunque chiamerà violento il nostro opporci con ogni mezzo necessario a un progetto che ci violenta e violenta la terra che abitiamo, ma anche quei partiti che provassero ad approfittare di questo variegato amalgama umano con l’intento di mangiarselo al prossimo banchetto elettorale. Gli andremo di traverso, saremo loro indigesti, ci proveremo con tutta la tenacia che ci batte in petto e, se falliremo, cercheremo di farlo sempre meglio.

Corteo Noponte 12 Agosto

La Macchia libertaria sicula

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